La cooperazione tra Pmi: distretti, reti d'impresa e ruolo dei consulenti

I nuovi paradigmi portati dalla globalizzazione, le trasversali innovazioni tecnologiche e le ibridazioni tra settori merceologici, i cambiamenti sociali ed economici ecc. stanno da tempo comportando evoluzioni della cultura manageriale e dei modelli organizzativi aziendali. In pochi anni siamo passati da residui di una concezione tayloristica alla lean organization e alle reti d’impresa. Si sviluppano nuove forme di business quali la sharing economy e nuove modalità della stessa vita civile (le smart cities), si frastagliano le competenze e le esperienze di lavoro, sempre più knowledge intensive ma anche precario.
A questi fattori strategici si aggiungono naturalmente gli effetti della Grande Crisi scoppiata nel 2008 negli USA e tuttora pesante in Europa e in particolare in Italia. La Banca d’Italia nel marzo 2015 definiva la crisi come una guerra:  Rispetto a sette anni fa: produciamo quasi un decimo in meno, l'industria ha subito una contrazione del 17 per cento, le costruzioni di oltre il 30. Sono stati distrutti all'incirca un milione di posti di lavoro. Le imprese investono un terzo in meno, le famiglie spendono l'8 per cento in meno. Le esportazioni sono a stento rimaste costanti. È aumentata la diseguaglianza fra le imprese e fra le famiglie" (1).

Networking e distretti
Studiosi, consulenti di management e istituzioni analizzano questi cambiamenti che peraltro, spesso sono intrecciati con fenomeni precedenti.
Si pensi ad es. alle molteplici forme di networking/coworking oggi possibili anche grazie al web ed al cambiamento costante degli storici distretti europei (manifatturieri, agroalimentari, culturali e turistici) che gli anglosassoni studiano incuriositi da oltre un secolo (da A.Marshall a M.Porter).
Queste forme organizzative tra pmi sono protagoniste del ‘capitalismo territoriale’, un sistema in costante divenire capace di autorigenerarsi, un sistema culturale prima ancora che economico particolarmente rilevante in Italia e che già molti anni fa Becattini definiva ‘un impasto complesso e articolato di una pluralità di soggetti semplici’.

Oggi i distretti europei sono diventati sempre più dis-larghi e capaci di superare logiche puramente territoriali, sempre più diversificati tra loro, ma orientati a divenire veri cluster, dove si intrecciano cooperazione, competizione e coevoluzione sia tecnologica che organizzativa che sanno trasformarsi in eccellenza competitiva. (www.osservatoriodistretti.org)
Dati spesso per esauriti, in realtà i ‘nuovi’ distretti e metadistretti tra pmi ad es. in Italia hanno confermato la loro vitalità sia nell’export che nel contributo al pil.  Il compianto Presidente della CGIA di Mestre G.Bortolussi così commentava a metà 2014 una recente indagine Unioncamere : Molti osservatori li davano per superati e in condizioni di salute molto precarie: in verità i distretti industriali continuano a essere le realtà socio-economiche più dinamiche del Paese che, a quanto pare, hanno superato da tempo il tunnel della crisi.

A ennesima conferma, l’indagine 2015 di Intesa SanPaolo sui 144 distretti italiani censiti, sottolinea la maggior propensione innovativa delle pmi distrettuali rispetto a quelle non distrettuali (es. 21,9 % di brevetti contro il 15,6%, 39 marchi ogni cento imprese nei distretti contro 20 nelle aziende non distrettuali, maggior propensione degli IDE verso i distretti, ecc.) nonché la maggior propensione all’export. Particolarmente importante il ruolo delle medie imprese ‘capo filiera’ (che operano sia dentro che fuori dei distretti storici), quali hub commerciali, generatori di ricerca e sviluppo o anche fornitori di servizi a valle (es. smaltimento dei rifiuti industriali). E non a caso nei distretti rinnovati si verificano molti esempi di reshoring (cioè di aziende italiane che ri-localizzano sul territorio nazionale) o di investimenti esteri mirati.

La caratteristica dei moderni distretti è sempre più quella della Knowledge Extended Company, cioè l’azienda allargata della conoscenza, dove si sviluppano scambio di know how, esperienze di innovazione continua dei processi organizzativi, cooperazione su singoli progetti - ad es. internazionalizzazione o tecnologie – e dove anche i soggetti istituzionali (CCIAA, Parchi Tecnologici, Università, professionals,  ecc.) apportano contributi significativi e sinergici, capaci di aggiungere valore e garantire eccellenza competitiva. E queste esperienze ‘allargate’ ormai travalicano  le tradizionali allocazioni geografiche per comprendere aziende con valori omogenei (qualità innovazione, ecc.)  anche per business temporanei.
Accanto a questi fenomeni collettivi restano ovviamente le individualità delle singole imprese - alcune grandi che fungono da driver, ma soprattutto piccole e medie imprese di settori complementari o che partecipano alla stessa filiera del valore.

Queste individualità fanno parte dell’insopprimibile desiderio del singolo imprenditore di valorizzare il proprio brand e - purchè questo non diventi individualismo perdente - tutto ciò rimane un fattore decisivo nell’economia di mercato. Non c’è dubbio che lo spirito imprenditivo – unito al capitale intellettuale ed all’innovazione ecosostenibile -  sia oggi la risorsa più importante dei paesi OCSE per fare qualità e per competere con le economie dei paesi emergenti.

Ecco perché nell’analizzare e sviluppare forme di cooperazione tra pmi occorre tener conto delle specificità (culturali, merceologiche, organizzative, finanziarie ecc) e dell’insieme dei fattori competitivi, evitando di applicare modelli astratti (che solitamente non vengono accettati) e considerando la necessità di un work in progress che deve essere coordinato da soggetti terzi che vivano in prima persona la cultura organizzativa necessaria (consulenti di direzione, manager di distretto, ecc.) apportando contemporaneamente benchmark di successo.
A parte le specifiche esperienze distrettuali, le modalità sono dunque molte e spesso già ampiamente sperimentate, ma il principio-guida delle reti deve essere quello della escalation realistica sviluppata in base alle omogeneità effettive, cioè una cooperazione crescente (anche nei costi), formalizzata e misurata, capace di iniziare con attività semplici e sinergiche per arrivare - eventualmente  e col giusto tempo - ai contratti di rete o sino alle fusioni.  Dal cobranding al comarketing, dagli acquisti in comune a investimenti in tecnologie (es. software gestionali e R&S) e sino a forme di cooperazione organizzativa (es. scambi di lavorazioni) e societaria (sino a scambi di quote o M&A). Senza pensare di saltare i gradini..

Reti d’impresa e contratti di rete
Non c’è dubbio che tra gli effetti della Grande Crisi sia emersa prepotente in molte imprese (piccole e grandi) la necessità di fare squadra, superando l’individualismo inefficace per generare massa critica e creare ottimizzazioni (nei costi e nei ricavi).
Del resto questo è un fenomeno che coinvolge anche il non profit (ad es. acquisti in comune nella sanità, promozioni pubblico/private nel turismo, ecc.) in quella logica che recentemente M.Porter definiva necessaria per ‘creare valore condiviso’ tra aziende, ambiente e società.

Come noto, la Rete rappresenta ‘una forma aggregativa fra imprese che permette a ciascuna partecipe di raggiungere una dimensione adeguata per competere sui mercati globali, mantenendo ognuna la propria identità e indipendenza. La sostenibilità degli equilibri fra le partecipi è fattore determinante.
Una classificazione delle tipologie più comuni di attività:
·         Reti del sapere: con l’obiettivo di uno scambio di informazioni e  know how
·         Reti del fare: focalizzate sullo scambio di prestazioni
·         Reti del fare insieme: orientate verso progetti di investimento comuni’ . (G.Bruni)

Le finalità di una Rete tra imprese possono dunque essere molteplici: innovazione tecnologica e valorizzazione del capitale intellettuale e del management, miglioramenti nel marketing e nella distribuzione (es. internazionalizzazione tra imprese complementari), massa critica nella supply chain, ecc.
L’Italia, con il dlgs n.5/2009, si è posta all’avanguardia nell’UE su questo tema, anche se per il momento (giugno 2015) si registrano solo circa 2.000 reti effettivamente istituite (in gran parte reti-contratto) con circa 10.000 imprese aderenti (molte medie, spesso già partners tra loro o in filiere omogenee).

Come noto - a parte i consorzi - due sono le forme contrattuali attualmente previste dalla nostra legislazione nazionale sulle reti d’impresa:
·         la Rete-contratto (in base al cit.dlgs.5/2009) che non acquisisce personalità giuridica autonoma e viene istituita sulla base di un progetto comune formalizzato, tramite il quale le varie imprese mantengono la propria individualità operativa e la propria fatturazione attiva e passiva. Può anche avere un fondo patrimoniale comune conferito dai singoli soggetti ed eventualmente un organo comune di governance. Dunque una soluzione cooperativa piuttosto informale, particolarmente adatta alle pmi a proprietà imprenditoriale che operano ad es. nello stesso business.
·         La Rete-soggetto (L.134 e L.221 del 2012) costituita da un insieme di imprese che da vita ad un soggetto economico con personalità giuridica propria, dotata di un fondo comune e di un organo comune di governance. La Rete-soggetto diventa titolare dei rapporti verso terzi nella realizzazione del progetto comune e può godere di specifiche e interessanti agevolazioni fiscali.

L’esempio della legislazione in Friuli VG

Accanto a queste forme di Rete e accanto alla legislazione nazionale si stanno configurando interessanti norme regionali di supporto e stimolo, che vedono coinvolti vari soggetti istituzionali e associazioni imprenditoriali., banche comprese.
Citiamo in particolare la LR 4/2013 del Friuli VG che – nell’ambito di un significativo e ampio programma di rilancio industriale - concede contributi sia per attività di supporto alle singole imprese sia contributi per la creazione o sviluppo di reti tra pmi.  Il relativo regolamento attuativo recita:
Il progetto di aggregazione in rete, ai sensi dell’articolo 19, comma 2, della LR 4/2013, prevede almeno una delle seguenti azioni:
a) sviluppo di innovazione di processo a carattere tecnologico, organizzativo, gestionale, nelle tecniche di promozione del territorio, nelle relazioni tra operatori e nei rapporti con i clienti, anche finalizzate al rafforzamento e consolidamento delle reti distributive e della presenza sui mercati;
b) processi di internazionalizzazione;
c) sviluppo e miglioramento di funzioni condivise dall'aggregazione, tra le quali progettazione, logistica, servizi connessi, comunicazione, informatizzazione, finalizzate all'aumento dell'efficienza e dell'imprenditorialità;
d) realizzazione di attività comuni per l'innovazione di prodotto;
e) definizione di regole di commercializzazione supportate da linee comuni di marketing;
f) organizzazione e partecipazione a tavoli tecnici per la standardizzazione dei processi aziendali e per la condivisione di procedure sulla qualità dei processi, nonché la condivisione di procedure volte a garantire il rispetto di normative in materia ambientale;
g) creazione e promozione di marchi di rete. (www.regione.fvg.it)

Il soggetto gestore, cioè la Camera di Commercio, nel vagliare le richieste di contributo (sino al 50% dell’investimento complessivo) deve  considerare non solo la qualità del progetto ma anche gli output possibili della nascente rete o della rete che si sviluppa. E il contributo di consulenti esperti di processi aziendali è certamente strategico.

Occorre un manager-coordinatore della Rete
Molti sono dunque gli obiettivi e varie le modalità per la creazione di reti d’impresa.  Le istituzioni sia pubbliche (CCIAA, Regioni, ecc.) che private (Confindustria, Confartigianato, ecc.) stanno propugnando da anni queste opportunità, per superare i vincoli culturali (individualismo eccessivo) e in particolare per superare ‘più avanti’ gli effetti della Grande Crisi (es. internazionalizzazione e innovazione organizzativa).

Ma occorre che le istituzioni e ovviamente gli imprenditori interessati siano consapevoli che occorre una guida, un manager-coordinatore esterno alle imprese contraenti che :
·         conosca l’ambiente socio-economico locale o almeno il settore del business
·         svolga anzitutto un audit sui rispettivi asset dei ‘nubendi’ e sulle rispettive modalità operative (budgeting, stile di leadership, KPI ecc)
·         quindi riassuma ai singoli le sue valutazioni indipendenti sulla fattibilità concreta del progetto-Rete e sui punti forti/deboli del progetto stesso.
·         Se i ‘nubendi’ decidono di proseguire, allora al manager di rete deve essere affidato l’incarico di redigere un business plan almeno biennale e di coordinare e soprattutto affiancare i singoli contraenti nella escalation delle attività (il viaggio).
·         Il manager di rete (un consulente di management) dovrebbe dunque essere considerato come il tutore (anche del budget comune) e il motivatore del team di rete, un professionista che conosca dall’interno la vite delle aziende e che ne sappia governare anche i momenti di debolezza e le contraddizioni. Una grande responsabilità che evidentemente non può essere assolta né dai funzionari di una Camera di Commercio né da un’associazione imprenditoriale, entrambe per loro natura ‘neutre’ nei processi delle singole imprese.

La citata LR 4/2013 del Friuli VG nei suoi affinamenti (v.Legge finanziaria 2015) ha cominciato a contemplare il co-finanziamento relativo all’inserimento di manager di rete sulla base di un programma approvato dalla locale CCIAA. Tuttavia l’improvvisazione o il volontarismo non bastano. Per formare/individuare queste nuove figure manageriali APCO (Associazione Professionale Italiana dei Consulenti di management-www.apcoitalia.it)  offre la sua consulenza anche a livello regionale ad imprese e associazioni.