Progresso o Civiltà? Il cambiamento nella vita sociale e nel lavoro

da Carlo Baldassi
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I due termini non sono sinonimi anche se ovviamente non sono ‘tecnicamente’ contrari. Anzi, tutti auspicheremmo che i due termini esprimessero una sinergia. Diciamo salomonicamente una cooperazione ai fini di bene comune.

Tuttavia va chiarito che non sempre è - o può non essere - così. La storia dimostra che esiste una gerarchia dei valori e dei significati: questo affida ai due termini/concetti un peso differente e il primato va (dovrebbe andare) alla Civiltà.

Nelle società umane la Civiltà è intesa come ‘complesso delle strutture sociali, economiche e culturali di una società in un determinato periodo storico’. (Zingarelli). Potremmo dire che, poiché l’essere umano è un animale sociale (a volte –ahimè- prevalentemente per interesse/sopravvivenza), la Civiltà consiste nella bontà delle relazioni (basta homo homini lupus) e nei conseguenti risultati culturali e organizzativi ottenuti nel rispetto dell’ambiente esterno (environment).

Questi risultati si possono misurare con vari indicatori a seconda dei tempi e dei luoghi ma si evidenziano tramite concetti quali rispetto, armonia e ‘ben-essere’ olistico.  Concetti e riflessioni da sempre al centro del pensiero umano: in occidente dai filosofi ateniesi  alla gerarchia dei bisogni di A.Maslow, ma soprattutto in oriente, dal buddismo al senso del dovere confuciano.

Questi concetti si sono manifestati spesso con modalità e realizzazioni straordinarie: pensiamo al Rinascimento italiano e ai paesaggi  dei nostri borghi o pensiamo alla cultura ambientale giapponese. Esempi di armonia.

Naturalmente le Civiltà si fondano anche sul Progresso (come dice la parola, è il progredire verso un obiettivo migliore): ad es. la medicina o le tecnologie di Internet servono anche nei villaggi asiatici o africani.

Dal Rinascimento europeo sono nati l’astronomia e l’Illuminismo, le tecnologie e i Diritti dell’Uomo (ahimè anche con qualche deviazione..)

Dunque il Progresso è fatto di innovazioni, di esperienze anche conflittuali, di legislazioni e di sviluppo economico che migliorano la salute, la convivenza e la stessa Civiltà.

Tuttavia il Progresso non è astorico, ha bisogno di determinate condizioni per svilupparsi e non è neutrale. Esso può farci vivere 100 anni ma anche essere utilizzato per compiere stragi con processi ‘industriali’ come fece il nazismo o per costruire la bomba atomica.

Il Progresso può aiutarci a conservare i beni culturali e a nutrirci (frutto delle Civiltà) ma anche -se sgovernato - a inquinare o distruggere terra fertile (questo è uno dei temi dell’EXPO sul cibo e l’ambiente di Milano 2015).

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Il Progresso nei sistemi finanziari può significare investimenti utili nel lungo periodo (es. nella ricerca farmacologica o nella logistica) oppure come operazioni a breve termine (es. il settore immobiliare prima del 2008 o gli shale oils negli USA oggi) che possono generare nuove bolle speculative che si trasformano in fallimenti di banche e debiti pubblici (ricordiamo che oggi la ricchezza finanziaria nel mondo assomma a circa 10 volte la ricchezza dell’economia reale!).

Dunque attenzione al ‘tecnicismo’ ed anche alle ‘distruzioni creative’: nel mondo globale, con 9 miliardi di attori, gli equilibri sono mutevoli e fragili … e la turboeconomia ha dimostrato  molto Progresso ma spesso poca Civiltà.

Ma nelle organizzazioni umane e nel lavoro?

L’introduzione (ovviamente solo per cenni) che abbiamo tentato ci serviva per entrare nel tema di nostra competenza: l’organizzazione del lavoro e il rapporto tra conquiste di Civiltà e Progresso organizzativo e tecnologico.

Insomma le aziende e il loro contesto.

Le aziende (ogni organizzazione umana) sono intese come ‘sistemi aperti’, in rapporto osmotico con il contesto esterno.

Così quando si parla di Responsabilità Sociale delle Imprese e di Sostenibilità dello sviluppo economico s’intende un rapporto positivo tra Civiltà e Progresso, tra l’azienda e il suo contesto esterno, ambientale e sociopolitico.

Dunque questo rapporto si può intendere come ricerca di relazioni utili e ‘armoniche’, che comprende anche il necessario confronto non distruttivo. Così valorizzare le competenze e la creatività dei lavoratori per affrontare i nuovi paradigmi globali, significa capire, motivare e gratificare i singoli e i loro gruppi di lavoro, ottimizzando costi/tempi e risultati economici e sociali.

Oggi (interpellateli e vedrete) un datore di lavoro si attende da ogni collaboratore non solo aderenza alle indicazioni aziendali ma anche quel quid ‘nascosto’ di capacità/intelligenza che va oltre gli aspetti strettamente contrattuali: ad es. la prontezza e creatività del front line di fronte alle lamentele di un cliente o le capacità di un risk manager durante un evento negativo. Rispettando etica e regole del gioco.

Per ottenere questi risultati occorrono dunque approcci culturali coinvolgenti, modalità organizzative adeguate e una leadership partecipativa e lungimirante.

Certamente una precarietà costante (diciamo all’americana..) non aiuta il commitment dei lavoratori nè genera stabili processi di qualità (il mestiere). Inoltre va coltivato il riconoscimento sia dei team che ad personam (ci sono molte modalità anche extramonetarie come il nuovo welfare aggiuntivo a quello pubblico) perché ogni mansione –anche operaia- è sempre più ‘intelligente’.

Dunque ogni processo razionale di change management deve partire dalla persone, deve essere ‘you focused’ .

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Ovviamente questo processo deve utilizzare strumenti e modalità manageriali adeguati alla situazione.  Perciò nei nostri interventi consulenziali ricordiamo due questioni parallele:

a) l’importanza strategica di un sistema organizzativo adeguato e di flussi operativi mirati (adhoccrazia) -‘L’organizzazione serve alle persone normali per compiere azioni eccellenti’. (T.Leavitt)

b) ma anche che l’organizzazione è quasi mai neutrale o ’astorica’, come dimostra l’evoluzione del pensiero manageriale da H.Ford al moderno lavoro autoimprenditivo. Il confronto (di idee e di interessi) è inevitabile.

Ma allora qual’è la priorità anche nel lavoro? Civiltà o Progresso?

Ancora una volta, evidentemente, Civiltà. Cioè capacità di progettare risultati a lungo termine.

Lo diciamo da consulenti di management: senza un approccio ‘umanistico’ ai processi le organizzazioni moderne – profit o non profit- non durano a lungo o non funzionano. Poichè oggi la complessità dei fattori competitivi genera incertezza costante ed il cambiamento è continuo occorre partire dalle persone, dai loro valori e talenti ed anche dai loro timori.

Pensiamo all’inserimento di una nuova linea produttiva o ad un nuovo software in fabbrica: se agli addetti non vengono illustrati i vantaggi e non c’è assistenza, i risultati attesi non arrivano. Oppure pensiamo ai team interculturali e internazionali (ad es. un gruppo di esperti che lavora ad un nuovo progetto di automotive o ad un nuovo farmaco) dove si devono affrontare aspetti professionali e culture differenti.

Se l’azienda è un ‘tempio del valore’ allora il management deve costruire e sviluppare le modalità specifiche di offerta di valore per un determinato mercato in un determinato momento.

Dunque leadership ‘umanistica’: basterebbe citare alcune esperienze aziendali di grande significato: dalle cooperative operaie del ‘900 alla ‘fabbrica a misura di uomo’ di Adriano Olivetti,  dalla Microsoft all’artigianato diffuso di Cucinelli in Umbria.

Gestire il cambiamento pensando alla Civiltà

La knowledge society deve essere incentrata sul concetto di persona colta. Deve essere un concetto universale proprio perché la knowledge society è una società di conoscenze, e perché è globale in materia di denaro, economia, carriere, tecnologia, di questioni di fondo e soprattutto in materia di informazione. La società post capitalistica ha bisogno di una forza unificante. Richiede un gruppo leader capace di focalizzare le tradizioni locali, particolaristiche, separate, su un impegno comune e condiviso verso valori, su un concetto di eccellenza comune e sul rispetto reciproco..La knowledge society ha bisogno di ..una persona con una cultura universale.

(P.Drucker - La società postcapitalistica 1993)

Il management riguarda gli esseri umani. Il suo compito è di far lavorare insieme le persone, di fare in modo che i loro punti di forza siano efficaci e i loro punti deboli irrilevanti. Questo è il compito dell’organizzazione ed è la ragione per cui il management è il fattore critico, determinante…Ogni impresa richiede commitment verso obiettivi comuni e valori condivisi. Senza questo commitment non esiste impresa, ma solo un’accozzaglia di persone.

(P.Drucker -  Il management, l’individuo e la società-2001)

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Ci sembra che queste considerazioni di P.Drucker sintetizzino bene ciò che intendiamo: nella moderna società della conoscenza la gestione e delle organizzazioni e del loro evolversi , deve partire dalla cultura e dal rispetto. Cioè da una visione a lungo termine. La Civiltà.

In questa visione le persone hanno un ruolo centrale.

Ad es.  nei programmi di change management (dove ogni attore è di fronte a sfide inusitate) ricordava recentemente McKinsey che ‘Organizations don’t change. People do’. Noi consulenti di direzione lo sappiamo bene (anche se non sempre dimostrano di saperlo certi capi di azienda..).

Il leader nei processi di cambiamento deve indicare gli obiettivi e supportare gli attori del gruppo (knowledge management e mentoring) ma deve anche ricordare che non sempre i capi hanno ragione e che certe resistenze ‘positive’ possono essere motivate e vanno comprese.

L’economia dello ‘short term’ ha fatto già molti danni e dunque riflettere va sempre bene. Per questo ci sono tecniche di verifica preventiva delle imminenti decisioni: ad es. D.Kahneman (psicologo Nobel dell’economia)  ne ha riassunte alcune nel suo ‘Pensieri lenti e veloci’ invitandoci alla cautela.

Inoltre innovazione non è nuovismo a tutti i costi e occorre che il cambiamento sia percepito come utile e socialmente accettabile. (1)

Infatti a dispetto di tante roboanti ‘novità’ molti bisogni essenziali restano ancora disattesi o trascurati anche nel ricco occidente: dalla salute negli ambienti domestici e di lavoro alle soluzioni ecosostenibili nei prodotti e nelle infrastrutture, dai tempi angoscianti del lavoro moderno alla ‘liquidità’ dei rapporti sociali che generano anomie spesso drammatiche.

Dunque occorre pensare alla Civiltà.

Poi naturalmente senza le giuste ‘armi’ e le corrette modalità organizzative le persone non possono lavorare bene né progredire: ad es. i sistemi di project management si basano sulle capacità di ottimizzare i tre fattori chiave di obiettivi/risorse/tempo utilizzando tecnologie, criteri e indicatori di misurazione ad hoc. Ma tenendo sempre conto del polimorfismo organizzativo possibile e dei contesti specifici.

***

In  sintesi: il primato della Civiltà/Società –qui intesa come attività e innovazione d’impresa - si basa sul capitale intellettuale (intangible assets) composto da capitale umano, capitale organizzativo e capitale relazionale. Si basa su una Leadership coinvolgente, responsabilizzante e ‘visionaria’ ma sempre realistica. E soprattutto su una logica di lungo termine dove il cambiamento deve avere un senso.

Il Progresso – inteso come capacità organizzativa e tecnologica di migliorare- fornisce gli indispensabili strumenti operativi ma sempre in una logica di management ‘umanistico’. Dunque al servizio di una missione e di valori condivisi.

Carlo Baldassi consulente di management certificato APCO - Udine http://www.baldassi.it

1)      v. i nostri contributi sul change management e sulla leadership sul nostro sito web e vedi anche I Ferri del mestiere di C. Baldassi - 2013

Il valore degli asset intangibili

da Carlo Baldassi
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Da tempo le imprese ed organizzazioni più competitive sono convinte dell’importanza del ruolo che le risorse immateriali (intangible assets) rivestono nell’attuale società e nell’economia.
Imprese mondiali come Apple, Microsoft o Luis Vuitton sono sistematicamente elencate ai primi posti della classifica annuale di Forbes sui brand più importanti al mondo. Ma anche molte piccole e medie imprese di alta gamma possono fregiarsi di asset intangibili assai distintivi e competitivi: per restare in Italia potremmo citare i leader del food o della moda o imprese high tech in vari settori.
In queste imprese il valore complessivo (book value + IAS 38) può essere composto per oltre il 50/60% da fattori intangibili.
E naturalmente anche nel non profit–pubblico o privato-esistono i ‘campioni’.
Il fattore scatenante a livello globale è la moderna economia della conoscenza su cui influiscono ICT, web economy, trasversalità delle tecnologie e dei sistemi organizzativi, longlife education e nuove professionalità.
Perseguire e sviluppare gli intangible assets in un’azienda/organizzazione significa dunque ricercare fattori distintivi meno replicabili dai concorrenti. 
Questi assets distintivi possono derivare sia dal contesto esterno all’impresa/organizzazione (es. cultura sociale, infrastrutture tecnologiche diffuse, efficienza della PA ecc) sia –soprattutto- da fattori interni (competenze e professionalità, opere d’ingegno e creatività, processi organizzativi efficaci, relazioni con gli stakeholder ecc).
Un elenco sintetico degli I.A. potrebbe essere il seguente:
·    Human Resources Assets (professionalità e processi di knowledge management, leadership allargata, autoimprenditorialità diffusa, dedizione dei collaboratori ecc)
·    Marketing Related Assets (brand e posizionamento competitivo, sales management, redditività del business, rapporti con gli stakeholder ecc)
·    Customer Related Assets (user experience, gestione della clientela, customer satisfaction e fidelizzazione ecc)
·    Technology Based Assets (know how e brevetti, certificazioni, partnership con centri di ricerca ecc).

L’insieme dei fattori intangibili costituisce il capitale intellettuale di un’organizzazione, composto dal capitale umano, dal capitale organizzativo e dal capitale relazionale.
Se l’obiettivo dell’azienda/organizzazione è creare valore per sè e per la società, allora il compito del management è di valorizzare le interazioni tra le componenti del capitale intellettuale e definire opportuni indicatori relativi ai processi ed ai risultati attesi.

Come misurare gli Intangible Assets

secondo gli IAS 38 (International Accounting Standard) i valori intangibili sono misurabili  attraverso vari indicatori ma questi debbono essere continui e verificabili nel tempo, essere indicatori significativi ed essere coerenti con le strategie di value creation aziendale.
Ad es. per ottenere il fair value di un’azienda i principali indicatori valutativi considerano:
·        il reddito aggiuntivo/valore aggiunto (share value)
·        il costo sostenuto rispetto all’output (i processi e la qualità)
·        il successo duraturo sul mercato (competitività).

I reporting sugli I.A. debbono coinvolgere vari attori interni ed esterni (AFC, marketing, banche e stakeholder sociali ecc)  ed essi possono misurare:
·        qualità delle risorse umane (professionalità, organigrammi, good place to work e turn over, knowledge & change management, diversity policies ecc )
·        tassi di crescita (relativi a patrimonio, fatturato, investimenti e redditività, QM e brand value, clientela ecc)
·        tassi di innovazione (relativi a nuove tecnologie e processi, certificazioni, innovazioni utilizzate, adesione a protocolli internazionali, reti d’impresa ecc)
·        fattori di efficienza (business planning, KPI, obiettivi con meno costi/tempi, risk management, rapporti con banche  ecc)
·        fattori di continuità dei risultati nel tempo (valore azionario, Corporate Social Responsibility, partnership esterne ecc).
Ad es. nel caso della misurazione del valore di una marca (brand value) i principali metodi sono quelli:

Financial based: utilizzando metodi quali capital market, cost oriented, licensed oriented e premium-price oriented. Ad es. il metodo cost oriented considera il tempo/costo che un brand dovrebbe sostenere per diventare leader: conviene costruirlo o acquistarlo già pronto?

Market based: ad es. misurare la brand equity come l’effetto differenziale (ad es. più vendite o migliori margini) che la conoscenza della marca esercita sulle scelte dei consumatori alle azioni di marketing dell’azienda.
E naturalmente i report possono (dovrebbero sempre) essere completati da benchmarking coi leader di settore tramite alcuni sistemi di rating da aggiornare costantemente.
Chi fa tutto ciò? Ovviamente le linee strategiche sono dettate dal management o dall’imprenditore, ma un contributo assai importante può essere fornito da consulenti di direzione che - all’interno di un board -possono fornire contributi che derivano proprio dalla loro terzietà e dalle loro molteplici esperienze.

Carlo Baldassi consulente di management certificato APCO - Udine http://www.baldassi.it

Sugli “atteggiamenti” dei Consulenti di Management

da Franco Guazzoni
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Nei tanti (troppi ormai!) anni della mia attività professionale ho avuto la grande fortuna di poter conoscere, osservare e frequentare abbastanza da vicino svariate centinaia di Consulenti di Management: alcuni li ho avuti come colleghi, molti li ho intervistati, per possibili successive collaborazioni, moltissimi li ho incontrati di persona o in via virtuale, a livello sia nazionale che internazionale, nella vita associativa di ICMCI, FEACO, Assoconsult e APCO.

La raccolta delle referenze, nei processi di qualificazione e di rinnovo

da Franco Guazzoni
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Nello svolgimento delle attività della Commissione Soci, ho notato che i colleghi che si devono qualificare o che devono effettuare il rinnovo triennale (siamo una delle poche realtà associative che lo pratica! … mentre un medico, un ingegnere o un architetto, una volta iscritti all’albo, rimangono tali per tutta la loro vita professionale, bravi o meno bravi che siano o che diventino, per la nostra professione, giustamente, ogni tre anni dobbiamo dimostrare che ci manteniamo aggiornati e che siamo sempre attivi sul mercato!), dunque, dicevo che in quelle situazioni ho notato che i colleghi incontrano spesso difficoltà a contattare i loro (ex) clienti, per ottenere le lettere di referenza che APCO richiede.

Ciò mi stupisce non poco! Quale migliore occasione per ricontattare un cliente che non vediamo da qualche tempo? Per andare a visitarlo e ricordare quel tal bel lavoro che abbiamo fatto per lui? … Per verificarne i risultati in un’ottica un po’ più prospettica e meno vicina alla conclusione dell’intervento vero e proprio? …

Ma anche per sottolineare come questa modalità di raccolta delle referenze sia una peculiarità propria della nostra Associazione APCO, approfittando per mettere in luce il valore che essa ci trasmette e al quale ci chiama. Forse anche per richiamare il network internazionale (ICMCI) di cui APCO - e dunque ciascun socio CMC – fa parte. Ho l’impressione che rispetto a queste caratteristiche, importanti e uniche, si corra il rischio di essere un po’ troppo timidi, dandole un po’ troppo per sottintese … forse anche perché non le abbiamo ben presenti noi stessi? Come riusciremo a trasmettere ai nostri clienti qualcosa che vale, se non ne siamo davvero convinti noi per primi? … In quanti ricordiamo di sottolineare questi aspetti, quando chiediamo le referenze?

Vedo poi un altro motivo per andare con coraggio alla ricerca delle referenze dei lavori che abbiamo portato a termine con successo: questa non può essere anche l’occasione per intercettare nuove ed emergenti necessità che il cliente sta mettendo a fuoco in maniera più o meno esplicita e chiara? Ecco dunque un’occasione, se non proprio per aiutarlo in questo lavoro di chiarificazione e di messa a fuoco più precisa delle sue nuove esigenze, quanto meno per riprendere e riattivare un contatto.

E allora dovremmo cercare di capovolgere il nostro approccio: i clienti serviti in un passato più o meno lontano vanno seguiti sempre e comunque, indipendentemente dal fatto che necessitiamo delle loro referenze per il rinnovo della nostra qualificazione in APCO! In effetti, se ci pensiamo bene, uno dei principali asset di noi Management Consultant è costituito dall’insieme dei contatti concreti che possiamo attivare; dall’insieme, in altre parole, degli indirizzi di società, di fabbriche, di uffici, dove conosciamo persone e dove possiamo, praticamente in qualsiasi momento, solo con un breve preavviso, fermarci a dare un saluto.

Se seguiamo questa impostazione di Account Management (che richiede certo anche molto altro, di cui parleremo in un prossimo articolo), la richiesta di referenze diviene un semplice “di cui”, un momento di un discorso assai più ampio.

Vogliamo provare?... Sempre che non abbiamo lasciato insoddisfatto il nostro cliente, ma anche questa spiacevole eventualità meriterebbe un discorso a parte!

Franco Guazzoni, CMC
Coordinatore Commissione Soci

Che cosa conta davvero per un cliente?

da Franco Guazzoni
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Forse la cosa migliore è chiederglielo, in fase di definizione dell’intervento, non trovate?

Può aiutare, a questo proposito, avere una lista di possibili criteri, tra cui  far sceglier al nostro cliente quelli che per lui contano di più per questo specifico progetto (certo ponendo un limite alle possibilità di scelta, non più di cinque o sei!). Va da sé che questa discussione preliminare con il nostro cliente può rivelarsi molto utile come riflessione iniziale, per capirsi meglio, e anche per aiutarlo riflettere; in poche parole, per predisporci a dare maggior valore al nostro intervento. Se anticipata alla fase di negoziazione, quando il cliente non ha ancora deciso se affidarci l’incarico, potrà addirittura aiutarci a concludere positivamente la trattativa!

Ogni scelta effettuata dal nostro cliente dovrà naturalmente comportare poi modalità differenti di erogazione del servizio da parte nostra, e tornerà utile come elemento di riferimento, sia durante lo svolgimento dell’incarico, sia alla fine dello stesso, quando verrà il momento di farne una valutazione complessiva.

Il tipo di consulenza richiesto dal cliente (come descritto nell’articolo “Vari tipi di consulenza”) influenzerà molto, come è intuitivo, la scelta dei criteri che il cliente vorrà privilegiare.

Servizi: quaranta pensieri su cui meditare (ispirato da “The Laws of Service Businesses”, di D. Daryl Wyckoff e David H. Maister)

da Franco Guazzoni
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1. I prodotti si consumano o si usano, i servizi si sperimentano attraverso l’esperienza diretta
2. La bontà di un servizio dipende anche dai suoi contenuti, ma soprattutto dal come viene erogato
3. La soddisfazione di un cliente è data dalla sua percezione di quanto gli stiamo dando, al netto delle sue aspettative
4. Ogni interazione col cliente è come un piccolo role-play, con ruoli e parti assegnate. Molto raramente sono ammesse le improvvisazioni, e solo da parte degli attori migliori
5. Se il cliente si lamenta per qualche cosa, tenete distinto il problema dal cliente, e ricordate che dovrete occuparvi di entrambi
6. Scegliete un paio di dimensioni del servizio che volete offrire, e preparatevi a essere migliore di chiunque altro in quelle dimensioni: conquisterete così una posizione di preminenza con i clienti che considerano prioritarie quelle dimensioni
7. Mettetecela tutta per elevare il livello del vostro servizio fin dal primo incontro col cliente. Create un effetto alone. Cominciate così come intendete continuare. La prima impressione conta!
8. Tutto può essere standardizzato, e di norma ha un grande mercato: McDonald’s fa più utili del migliore dei ristoranti
9. Ricordatevi di parlare il linguaggio del cliente, e non il vostro (sia l’ingegnere che il gentleman vogliono sapere che cosa l’autofficina ha fatto alla loro auto, ma parlano linguaggi differenti)
10. Nei servizi, le persone a contatto col cliente svolgono contemporaneamente il ruolo di venditori, di produttori e di manager, e divengono essi stessi parte del servizio che stanno erogando
11. L’abitudine porta alla noia. Attenti a non diventare il gatto di casa. Talora l’incumbent viene sconfitto. E’ una legge del mercato
12. Che cosa vuole il cliente? Non indovinate. Chiedeteglielo. Domandare fa parte del servizio
13. Ci sono due modi di soddisfare un cliente: o gli dai ciò che vuole, o lo induci a volere ciò che gli dai
14. Tieni il cliente occupato anche  durante le pause dell’erogazione del tuo servizio
15. Il controllo di qualità, nei servizi, è principalmente espletato dalla selezione del personale e dalla sua motivazione
16. Appena puoi, rendi tangibile anche ciò che di per sé non lo è (hai presente la striscia di carta che enfatizza la pulizia nei wc degli alberghi?)
17. Un buon servizio è ricordato meno a lungo di uno cattivo
18. Chi sta di fronte al cliente tende ad avere uno status superiore a chi sta nella backroom. Ciò deve essere in qualche modo combattuto, tutti sono importanti (o almeno devono crederlo!)
19. Il miglior modo di valutare un servizio è di essere un cliente
20. Quando il servizio è eccellente, non si distingue chi lo dà da chi lo riceve. L’empatia svolge un ruolo fondamentale.
21. Le persone che erogano il servizio divengono parte integrale della “service experience”. Dunque non contano solo competenza, precisione e tempestività, ma sono importanti anche i comportamenti  e gli atteggiamenti delle persone che erogano il servizio
22. E’ importante adottare comportamenti allineati con le attese emotive dei clienti (viaggi-vacanza, servizi finanziari e pompe funebri richiedono atteggiamenti diversi; ma anche nell’ambito della stessa tipologia di servizi, dobbiamo stare attenti alla psicologia e allo status del cliente che dobbiamo servire)
23. Gli errori possono sempre capitare. Ciò che è fondamentale è come sappiamo gestirli nei confronti del cliente
24. Un sorriso e una piccola gentilezza possono fare molto
25. Nei servizi la tempestività è spesso un fattore cruciale
26. Troppo di frequente il personale di grado inferiore è proprio quello che ha maggiori interazioni con i clienti
27. Il modo con cui le nostre persone trattano con i clienti è frutto di come esse vengono trattate da noi
28. Il valore di un complimento (meritato) è inestimabile
29. Non è necessario che il cliente sappia quanto il nostro servizio sia ben industrializzato
30. Di norma ci sono quattro categorie di clienti: i malati da molto (che avrebbero avuto bisogno dei nostri servizi, ma che si sono svegliati tardi, e che ora è difficile che possiamo aiutare davvero), i malati da poco (che di solito possiamo aiutare), quelli che temono di essere malati (in realtà non avrebbero bisogno di noi, ma insistono per avere i nostri servizi) e quelli che stanno bene (e non hanno bisogno di noi)
31. Alle prime tre categorie di cui al punto precedente dobbiamo essere in grado di offrire servizi diversamente modulati
32. Un bravo service manager (come un allenatore) organizza, assegna compiti, fa fare gli allenamenti e dà suggerimenti. Ma alla fine sono le sue persone che svolgono il servizio scendono in campo
33. Il management di un team che eroga servizi deve dimostrare il suo impegno con comportamenti esemplari, che incorporino tutti i valori della casa
34. Misurate in continuo le performance, valutate le persone solo quando necessario, e possibilmente per farle crescere e non per stroncarle
35. L’urgente scaccia sempre l’importante
36. Una buona e attenta gestione di clima e cultura è fondamentale per il successo di un’impresa di servizi
37. Qui l’errore è benvenuto, purché non sia ripetuto: cosa ve ne pare di uno slogan così?
38. Se le vostre persone non sono convinte di ciò che devono esporre, potranno mai convincere un cliente?
39. Non sempre il cliente ha ragione, ma bisogna comportarsi come se ciò fosse vero
40. L’obiettivo di chi eroga servizi non è di aver ragione, ma di servire davvero.
 
***

Mi piacerebbe davvero sapere che reazioni hanno suscitato in voi questi pensieri!

Ce n’è qualcuno che vi ha colpito più degli altri?
Qualcuno con cui non siete d’accordo?
Qualcuno che vorreste aggiungere?

Arrivederci al prossimo articolo!

Franco Guazzoni, CMC
Coordinatore Commissione Soci

Che cosa vuol dire “fare strategia” per un Consulente di Management? (basato sulla mia esperienza pratica ed ispirato da alcuni articoli di David Maister)

da Franco Guazzoni
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Un giorno un gruppo di Partner della Società XYZ stava discutendo della propria strategia. “Come possiamo pensare che tutti i nostri clienti apprezzino un unico tipo di approccio alla soluzione dei loro bisogni?” chiese ad un certo punto Partner Uno. “Dobbiamo – proseguì - metterci nella condizione di offrire una più ampia gamma di tipi di approcci per la soluzione migliore dei problemi dei nostri clienti.”

VARI TIPI di Consulenza Manageriale

da Franco Guazzoni
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Vorrei proporre oggi alla vostra attenzione un argomento che prende lo spunto dall’articolo “La consulenza sull’orlo di una radicale trasformazione”, di Clayton M. Christensen, Dina Wang e Derek von Bever, pubblicato nel numero di ottobre di Harvard Business Review. Il punto centrale di questo stimolante articolo riguarda la “decostruzione” e